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Il concorso di persone nel reato.



Come spesso accade, un fatto costituente reato può essere commesso da più persone in concorso tra di loro (socìetas sceleris) sicché il legislatore ha sentito l’esigenza di approntare al riguardo un'apposita disciplina.


In questo contesto, è doveroso menzionare l’art. 110 c.p, secondo il quale quando più persone concorrono nello stesso reato, ognuno di essi soggiace alla pena per questo stabilita.

Dal tenore letterale di questa norma si evince che presupposto essenziale del concorso è la realizzazione comune del proposito criminoso.


Più precisamente, tale realizzazione deve essere il risultato del volere di ogni singolo compartecipe, affinché esso possa rispondere penalmente.


Per altro, la realizzazione comune può manifestarsi verso l’esterno in diversi modi.


È possibile, infatti, che vi sia un concorrente che pone in essere integralmente la condotta tipica, differenziandosi pertanto da coloro che assumo solo la posizione di compartecipi secondari.


Tuttavia, ciò che conta è che vi sia stata una realizzazione comune comunque formatasi e, più in particolare, che le condotte dei singoli concorrenti si siano innestate nella sequenza causale che porta al perfezionarsi dell’evento dannoso o pericoloso.


Quanto appena detto, invero, trova una sua conferma nell’art. 115 c.p. con il quale il legislatore penale ha inteso escludere la punibilità a quei casi in cui un semplice accordo a commettere uno o più reati non venga poi eseguito.

In questo caso, come pure nell’ipotesi di reato impossibile, la dottrina parla di quasi reato, atteso che il giudice può comunque applicare una misura di sicurezza qualora sussista una pericolosità sociale del soggetto.


Venendo all’elemento soggettivo, invece, è necessario che la volontà del compartecipe si diriga verso la realizzazione comune, nella consapevolezza di concorrere con altri soggetti spinti dallo stesso proposito criminoso.


Va chiarito, però, che la realizzazione comune non richiede necessariamente un dolo del soggetto, posto che è possibile un concorso di persone sia nei reati dolosi che colposi; può accadere,inoltre, che uno dei compartecipi sia in dolo, ed altri invece siano in colpa.


In buona sostanza, detta realizzazione non presuppone la volontà tipica dell’evento, ma più semplicemente l’accordo e la consapevolezza di agire in cooperazione per la commissione di un determinato reato.


Per altro, questo ci permette di distinguere il concorso di persone, munito di proprie regole, dal concorso indipendente di cause umane, soggetto alle tradizionali regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p.


Quanto ai reati colposi, conviene ricordare l’art. 113 c.p. dove, a ben vedere, il legislatore intende la cooperazione colposa a commettere un delitto nella forma di un vero e proprio concorso.


In particolare, la norma testè citata stabilisce che quando l’evento è cagionato dalla cooperazione tra più soggetti, ognuno di essi soggiace alla pena prevista per il reato commesso.

Bisogna precisare, però, che ogni soggetto deve aver voluto la realizzazione comune che opera, coma già detto, come presupposto essenziale nel concorso di persone.


Passando al profilo oggettivo, la dottrina maggioritaria richiede che la condotta di ogni singolo compartecipe sia stata la condicio sine qua non per la realizzazione dell’evento.

Questa tesi, tuttavia, non riesce a spiegare come possano considerarsi condizioni essenziali anche quelle condotte che, ai sensi dell’art. 114 c.p., hanno avuto una minima importanza nella preparazione ed esecuzione del delitto.


Questo sta a significare che il legislatore penale ha dato rilevanza anche a quelle condotte che comunque si sono innestate nelle sequenza causale, seppur non sorrette dalla rigida regola dettata degli artt. 40 e 41 c.p.


A titolo esemplificativo, basti pensare al caso del soggetto che fa il palo al fine di permettere ad altri di commettere una rapina in una banca.

In tale quadro fattuale, emerge come l’ausilio del palo non si atteggi come condizione essenziale affinché l’evento si possa verificare.


In definitiva, come rileva autorevole dottrina, ciò che conta è la realizzazione comune quale frutto di una compartecipazione di condotte dirette al medesimo evento.


Ci si chiede, però, che cosa accade se il reato effettivamente commesso risulti diverso da quello voluto da uno dei concorrenti.

Facendo di nuovo riferimento all’ipotesi fattuale appena illustrata, è possibile che il "palo" si trovi a rispondere di un diverso delitto qualora, per avventura, la rapina trascenda in un diverso reato.


Ebbene, al riguardo è bene citare l’art. 116 c.p. il quale dispone che nei casi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da uno dei concorrenti, anche questi ne risponde qualora l’evento è conseguenza della sua azione o omissione.

Per di più, se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita per chi volle il reato meno grave.


Dal dettato normativo di questa disposizione si evince, a ben riflettere, come il legislatore penale abbia ritenuto rimproverabile il comportamento di chi si affida alla condotta altrui, diversamente di quanto accade per i reati colposi tout court per i quali è prevista una pena meno severa.


Esaminando i requisiti necessari per l’applicazione della norma in parola, è necessario che il compartecipe abbia effettivamente voluto un reato diverso da quello commesso, ponendo quindi in essere la relativa condotta di concorso.

Bisogna dire, però, che tale condotta deve aver causato il diverso reato commesso al posto di quello concordato, o che addirittura sia andato oltre a questo.


Ci si chiede, a questo punto, come possa un soggetto rispondere per un reato da lui non voluto, atteso il principio di colpevolezza che governa il sistema penale.


Orbene, dottrina e giurisprudenza sono soliti parlare di prevedibilità dell’evento, attraverso cui è possibile attribuire al soggetto una responsabilità penale, quantomeno a titolo di colpa.

Ponendo l’attenzione sul repertorio giurisprudenziale formatosi sul punto, si evidenzia come la giurisprudenza di legittimità abbia posto l’accento sul fatto che detta prevedibilità non debba essere accertata in astratto, bensì in concreto.


Occorre, in particolare, accertare tutte le circostanze fattuali del caso per poter ritenere che il soggetto agente, verosimilmente, avrebbe potuto prevedere il verificarsi di un evento diverso da quello in realtà voluto.


Concludendo, il soggetto che agisce, pur rappresentandosi la prevedibilità dell’evento, accetta un rischio totalmente illecito attraverso il quale è possibile attribuire allo stesso una responsabilità penale, definita da dominante dottrina come responsabilità obiettiva.

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