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Buche stradali: come ottenere il risarcimento.


Quando si cade con la ruota dell’auto in una fossa stradale l’ultimo problema a cui si pensa è quello dell’onere della prova: la dimostrazione, cioè – in caso di futuro contenzioso con il Comune o con l’amministrazione proprietaria della strada – delle altrui responsabilità e della propria buona condotta di guida. Eppure è quello il primo campo di battaglia su cui si gioca la partita del risarcimento del danno. Ed è proprio qui che si registrano i principali contrasti della giurisprudenza.

Il punto di partenza è questo: la responsabilità dell’amministrazione si presume. In pratica, il codice civile stabilisce che qualsiasi soggetto proprietario o custode di una cosa (quale appunto la strada) è sempre obbligato al risarcimento per i danni da essa prodotti a terzi, a prescindere da una eventuale sua colpa o malafede. È ciò che si chiama responsabilità oggettiva, quella cioè che prescinde dall’atteggiamento psicologico del titolare del bene, ma che scatta per il semplice rapporto oggettivo tra il soggetto e la cosa.

Dunque, almeno in teoria, la via del risarcimento dovrebbe essere agevole per l’automobilista. Invece, per come si vedrà in seguito, non è sempre così.


La prova del fatto


Quando si cade in una fossa stradale, bisognerebbe già pensare, per prima cosa, all’eventuale contenzioso che potrebbe sorgere con la pubblica amministrazione. Non è, infatti, vero che la P.A. è sempre dalla parte del cittadino, specie quando si tratta di pagare. Anzi, gli enti pubblici ragionano come soggetti portatori di un interesse personale, che non coincide sempre con quello della collettività. Quindi, prima di togliere l’auto dall’avvallamento apertosi sull’asfalto, è opportuno procurarsi, proprio in questa fase, le prove del fatto storico. Una fotografia scattata con il cellulare è certamente la cosa più immediata. Ma poiché, nel giudizio civile, essa viene considerata una “riproduzione meccanica”, facilmente contestabile dalla controparte, è meglio procurarsi una prova certa come il verbale della polizia municipale o stradale, cui bisognerebbe telefonare nell’immediato.

Non sempre, però, le autorità sono disponibili ad accorrere; così un testimone (anche il coniuge presente in auto) può garantire quell’appiglio necessario al giudice per darci ragione. Se siete soli in auto, sappiate che le vostre dichiarazioni non potranno essere utilizzate in causa, per cui è sempre opportuno telefonare a un parente o a un amico che venga a vedere la scena, onde poterci essere d’aiuto, qualora dovessimo adire le vie legali.

La prova del danno


Il momento successivo è la dimostrazione del danno subìto dal mezzo (cosiddetti danni materiali) o, eventualmente, dalla nostra stessa persona (cosiddetti danni fisici). Se, nel primo caso, la fattura del gommista, del batti lamiera o dell’elettrauto è più che sufficiente a garantire la prova del danno, per chi invece ha riportato contusioni o altre lesioni fisiche solo il certificato di pronto soccorso può dare quel margine di certezza per poter poi rivendicare il risarcimento.

Se non avete intenzione di riparare l’auto prima di vedere i soldi del risarcimento, sappiate che non solo potrebbe passare molto tempo, ma proprio la mancanza di una prova dell’esborso potrebbe essere utilizzata dall’amministrazione come scusa per negarvi l’indennizzo.

L’insidia o il trabocchetto e l’onere della prova


Con le prove così raccolte, il primo passo da compiere è una richiesta di risarcimento inviata con raccomandata a.r. al Comune. La diffida può essere inviata da voi stessi o dal vostro avvocato. Purtroppo siamo figli di un’epoca in cui la voce del cittadino è ascoltata di meno di quella dei legali. Ci si può dolere di questo, si può anche criticare fortemente il sistema, ma di fatto è così. Quindi, se la diffida è inviata da uno studio legale c’è qualche remota possibilità in più che venga accolta. Ma non fatevi troppe illusione. Il più delle volte i Comuni prendono tempo e vi costringono alla causa. Ed è proprio qui che si gioca la vera strategia processuale. Per cui è bene conoscere cosa ha detto, negli scorsi anni, la giurisprudenza.


La prima cosa da sapere è che, come detto, la responsabilità della pubblica amministrazione si presume, salvo che quest’ultima dimostri che l’evento si è verificato per un caso fortuito, ossia per un fatto imprevedibile e inevitabile. Che, di certo, non può considerarsi l’apertura della buca a seguito di una pioggia o di una nevicata, atteso che la buona manutenzione delle strade è un onere della pubblica amministrazione che non può essere scaricata sulle intemperie climatiche.


Il caso fortuito, però, potrebbe consistere nel comportamento dello stesso conducente che, andando per esempio veloce con l’auto o, comunque, oltre i limiti stabiliti dal codice o dalle concrete condizioni della strada, abbia agevolato egli stesso il rischio del danno. Allo stesso modo un comportamento distratto, come quello di chi invia sms con il telefonino, senza accorgersi della buca, rompe quella responsabilità diretta che lega l’amministrazione alla strada e, quindi, impedisce il risarcimento.


Un ultimo aspetto risulta assai importante e da non sottovalutare. La giurisprudenza ha chiarito, in passato, che solo le insidie o i trabocchetti possono essere oggetto di risarcimento: si tratta, in pratica, di tutte quelle situazioni di pericolo non facilmente visibili con l’ordinaria diligenza. Il che potrebbe essere sintetizzato in questo modo: tanto più è grande ed evidente la buca, tanto più è illuminato il tratto di strada, tanto meno possibilità di ottenere il risarcimento ci sono.

In passato qualche giudice ha detto che l’automobilista che deliberatamente scelga di percorrere una strada in evidente stato di dissesto non può che prendersela con sé stesso per l’eventuale danno.


Ora, però, viene la parte delicata sulla quale non tutti i giudici sono d’accordo: a chi spetta provare la presenza dell’insidia o il trabocchetto? Il che, in buona sostanza, significa: è l’automobilista a dover dare prova al giudice che la fossa non era facilmente visibile o, al contrario, è l’amministrazione a dover dimostrare il contrario (che, cioè, l’ostacolo poteva essere evitato con un minimo di attenzione)? Dunque, sulla responsabilità più o meno rigida dell’amministrazione proprietaria dell’area, nel senso che ogni buca o insidia costituisce sempre una responsabilità dell’ente pubblico, la giurisprudenza è da tempo divisa.


Secondo la sentenza del giudice di Pace di Taranto, non è il danneggiato a dover dimostrare l’insidia o il trabocchetto. Dello stesso parere il Tribunale di Napoli. Secondo il giudice campano, il potere di controllo su un bene di proprietà, va inteso come effettiva possibilità di governare il bene stesso e quindi di farlo oggetto di attività di controllo della sua pericolosità e di intervento per manutenzione tutte le volte che si renda necessario. Spetta quindi all’ente proprietario della strada dimostrare che la caduta sia stata imputabile ad un fattore estraneo al proprio onere di custodia della via.


Una parte della magistratura di legittimità e di merito, invece, ritiene che anche se al soggetto proprietario della strada aperta al pubblico può essere attribuita una responsabilità per colpa ai per non avere osservato le comuni norme di prudenza nel controllo delle strade, tale colpa va valutata, da parte del giudice, alla luce del grado di prudenza ed attenzione posta dal conducente del motociclo nel percorrere la stessa strada. La Cassazione ha sostenuto ad esempio che la possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la presenza dell’insidia come causa dell’incidente.

Non basterebbe, insomma, secondo tale orientamento, la semplice caduta in una buca a costituire insidia stradale, perché il giudice deve sempre valutare se il conducente abbia comunque guidato con prudenza e con l’attenzione doverosa anche verso gli stessi possibili ostacoli notoriamente presenti sul manto stradale

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